In Italia c’è una legge scritta e poi ce n’è una parallela fatta di prassi, interpretazioni e piccoli ricatti. Nella prima, i diritti dei lavoratori sono garantiti da contratti nazionali, norme condivise, relazioni industriali. Nella seconda, quella che si vive davvero sui binari, nei treni, nelle mense, nei servizi appaltati i diritti esistono solo se non disturbano troppo. E se c’è un problema? Si scarica sui più deboli.
È quello che sta succedendo in questi giorni dopo il rinnovo del CCNL Mobilità – Area Attività Ferroviarie del 22 maggio 2025. Un contratto chiaro, regolarmente firmato, con precisi obblighi economici a carico delle aziende, tra cui l’adeguamento dei minimi retributivi a partire dal 1° giugno. Tutto trasparente. Tutto notificato alle imprese il 10 luglio. Eppure, c’è chi – come Elior, uno dei principali operatori della ristorazione collettiva e dei servizi in appalto nel mondo ferroviario – ha pensato bene di mettere le mani avanti con una lettera che, pur non dicendolo apertamente, lascia intuire un'intenzione precisa: quei soldi potrebbero non arrivare nei tempi dovuti. O magari solo dopo qualche “chiarimento”.
E qui, dietro le formule burocratiche e le frasi vaghe, si cela una strategia ben collaudata: prendere tempo, invocare la sostenibilità economica, trasformare il rispetto di un contratto in materia negoziabile. Un comportamento che le organizzazioni sindacali hanno bollato come inaccettabile, parlando – giustamente – di atto unilaterale potenzialmente idoneo a minare gli equilibri. Ma soprattutto un comportamento scorretto. Perché quando il potere contrattuale è tutto da una parte, il ritardo di un giorno può voler dire una rata del mutuo saltata. E quando si gioca sul filo della sussistenza, ogni ambiguità diventa violenza.
Non è un caso isolato. È il riflesso di un sistema in cui troppe aziende cercano di tenere il piede in due staffe: da un lato, mostrarsi rigorose nei confronti dei committenti pubblici; dall’altro, trattare i lavoratori come variabili d’aggiustamento. E nel mezzo, i sindacati, spesso ridotti a scegliere tra il male minore e il compromesso silenzioso. Ma il risultato è sempre lo stesso: chi sta in prima fila paga per tutti.
C’è poi un altro elemento che merita attenzione: il diritto di sciopero. In un contesto così squilibrato, dove le imprese possono ritardare pagamenti o applicazioni contrattuali senza conseguenze immediate, lo sciopero diventa l’unico strumento efficace per difendere diritti elementari. Eppure, sempre più spesso, proprio questo strumento è disinnescato con interpretazioni restrittive, regolamenti asfissianti, pressioni informali. Si arriva così all’assurdo: l’azienda può rinviare, il lavoratore no.
E allora forse è giunto il momento di rimettere mano alla legge sullo sciopero. Non per indebolirla ulteriormente ma per riportarla nel suo alveo costituzionale: quello di uno strumento di bilanciamento, non di censura. Perché quando i diritti si difendono solo a parole e le norme diventano labili nelle mani dei più forti, la democrazia sul lavoro non è più democrazia.
È solo finzione.